lunedì 5 marzo 2012

La crisi del manifatturiero e il declino industriale italiano

Siamo ancora la settima potenza economica del mondo e, se guardiamo all'Europa ed alla produzione industriale, addirittura veniamo dopo soltanto alla Germania.
Se si guarda all'Italia, oltre alla grande storia ed ai paesaggi unici, si parla ancora nel mondo di grande sviluppo industriale e di una manifattura estremamente evoluta, fatta di un tessuto fitto ed indissolubile di piccole e medie imprese, intervallate qua e là da grandi marchi internazionali e da aziende molto grandi. Se ancora si attraversa la via Emilia da Rimini a Piacenza, si gira attorno a Milano, si attraversa l'autostrada che da Triestre attraversa il Veneto e poi Brescia e Bergamo fino a Torino. Ma non soltanto. E dietro a tutto ciò si ricordano e si ripercorrono storie che partono da molto lontano e vengono dagli anni sessanta, quando Salvatore, Antonio o Giuseppe arrivavano in treno dalla Calabria a Torino, o dalla provincia di Napoli (negli anni settanta e ottanta) a Modena e Reggio Emilia. E avrebbero poi acquistato la cinquecento, il frigorifero e la lavatrice. Avrebbero diversificato sempre di più la loro alimentazione, cambiato ancora l'auto ed acquistato quella strana scatola che si chiamava computer con cui giocare a packman o a tetris.
Speranza e poi riscatto. Con grande lavoro e fatica. Guardando la luna e dividendo, in vacanza dai genitori in Salento, il cono gelato in due.
Poi gli anni avanzano e qualcosa succede, pian piano negli anni novanta, dove comunque sembra che i figli facciano molta meno fatica dei genitori. "I ragazzi di oggi!!!" si sentiva dire ancora fino a cinque-sei anni fa...

In prima istanza succede qualcosa che si chiama "globalizzazione". Paesi emergenti sempre più competitivi grazie ad una manodopera a basso costo, capaci di "rubare" continuamente quote di mercato alle nostre imprese. Ed ancora accade che si pone sempre maggiore attenzione, per tutte le imprese nostrane, all'economicità del processo, investendo risorse umane e finanziarie in un'attenzione molto forte a rendere la produzione economica allo scopo di avvicinarsi, anche solo un pò, ai prezzi dei concorrenti emergenti. Ci siamo riusciti? No.
Perchè forse dovevano essere investite risorse in altra direzione. Nella ricerca del "prodotto", nuovo o vecchio, ma che fosse estremamente attento alle esigenze del cliente, basandosi su una qualità eccelsa che gli emergenti non sarebbero stati in grado di proporre. Perchè il costo della manodopera è riducibile sì, ma fino ad un certo punto. Mentre la qualità può crescere e può essere frutto di una ricerca sofisticata che possiamo portare avanti grazie alla nostra consolidata e, storica, esperienza industriale.
Il tutto condito certamente, è inutile negarlo, da un'attenzione molto forte delle banche verso prodotti finanziari nuovi ed appetitosi, vicini alla speculazione o vicini ad un immobiliare crescente in una certa fase tra gli anni novanta e duemila, e molto pochi attenti alle imprese bisognose di liquidità a prezzi ragionevoli.
Ed ancora, addirittura, è accaduto che non si è riusciti a porre attenzione nè al processo nè al prodotto, spesso oberati dal peso di situazioni sociali difficili o piuttosto per pigrizia, per motivi culturali, per arretratezza politica o per l'impedimento di fattori lontani dal farci definire "potenza industriale".
Come si combattono prodotti inadeguati (lontani dalle aspettative e dall'attenzione del cliente a determinati fattori), blocchi socio-politici, scarsa promozione della qualità e dei sistemi su cui essa è basata e una classe manageriale legata al passato?
Soltanto dopo una radicale modifica della percezione culturale del "sistema di qualità", una qualità il cui significato si lega alla vita, alla "qualità" della vita, forse riusciremo a dare una risposta. E torneremo al riscatto di Salvatore, Antonio e Giuseppe, sul treno per Torino o Modena...

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