lunedì 24 settembre 2012

Massima flessibilità: minimi costi?

La parola è piuttosto antipatica a moltissimi lavoratori, mentre rappresenta una necessità ma talvolta anche un uso non proprio etico per molti imprenditori.
Ma quanto la flessibilità può convenire?


Casi emblematici in tutto il mondo mostrano che il lavoro a chiamata ha permesso finalmente di far fronte con moltissima tranquillità a tutti i picchi di produzione così come agli improvvisi cali delle vendite che possono caratterizzare il mercato in alcune stagioni se non proprio in alcuni anni.
Aumentare e diminuire la produzione in pochissimi giorni e con poche risorse: questo rappresenta l'obiettivo di molti imprenditori daccordo con la flessibilità e con i suoi vantaggi.

Lavoro stagionale, a tempo determinato, meglio ancora se a chiamata, magari attraverso strumenti di lavoro autonomo del lavoratore che offre la sua prestazione come un libero professionista.
I costi, soprattutto quelli del personale, possono in questo modo diminuire sensibilmente avendo a disposizione solo quanto necessario alla produzione in ogni momento. Costi risparmiati che talvolta possono essere reinvestiti anche in nuove tecnologie o in formazione.

Quanto però lo strumento della flessibilità viene utilizzato correttamente? In quale misura incide sui costi? Quali le responsabilità del professionista e dell'imprenditore?

Ok alla flessibilità, indiscutibile strumenti per competere adeguatamente sul mercato internazionale ed anche per investire risparmi e promuovere la crescità stessa dell'impresa.
Ma quali allora le responsabilità dello Stato a protezione del lavoratore? Quali responsabilità di un sistema di welfare capace di garantire ed anche di "approfittare" dell'adeguato inserimento e reinserimento del lavoratore, così come della sua continua crescita professionale e della sua formazione?

E necessario allora un lavoro sinergico, intelligente ed organizzato per lo sviluppo economico da una parte ma soprattutto sociale dall'altro. Scandinavia docet.

 

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